venerdì 11 settembre 2020

Il pensiero di Democrito sul comportamento degli esseri umani e sulla ricerca della felicità.

 





1) Astienti dalle colpe non per paura ma perché si deve.

2) La felicità non consiste negli armenti e neppure nell’oro; l’anima è la dimora della nostra sorte.

3) Gli uomini invocano la salute dagli dei con le preghiere, e non sanno che essa è in loro potere; ma siccome per intemperanza operano contro di essa, sono essi stessi che tradiscono la propria salute a causa delle passioni.

4) Le bramosie violente per certe cose accecano l'anima riguardo tutto il resto.

5) Saggio è colui che non si cruccia per le cose che non ha, ma gode di quelle che ha.

6)  Se non c'è intelligenza, la bellezza del corpo è una dote da animale,

7) Non è degno di vivere colui che non ha neppure un solo buon amico.

8) L'amicizia di uno solo, che sia intelligente, val più di quella di tutti gli altri presi insieme.

10) Ogni paese della Terra è aperto all'uomo saggio: perché la patria dell'animo virtuoso è l'intero universo.

11) L'aver desideri smoderati è da fanciullo, non da uomo.

12) Chi cede sempre davanti al denaro, non sarà mai uomo giusto.

13) Si deve essere veraci, non loquaci.

14) Chi preferisce i beni dell'anima sceglie ciò che ha pregio più divino; chi preferisce quelli del corpo, sceglie beni umani.

15) La perfezione dell'anima fa scomparire la deformità del fisico, mentre la forza del corpo scompagnata dal raziocino non rende affatto migliore l'anima.

mercoledì 27 maggio 2020

La vita quotidiana nel Medio Evo

Il termine Medioevo propriamente significa "età di mezzo" poiché si trova tra due età ritenute di massimo splendore della civiltà: l’Età classica greca e romana e il Rinascimento. 

Durante il Medioevo l’efficientissimo sistema di comunicazioni che grazie alle strade consolari romane e ai sistemi fluviali metteva in comunicazione territori molto distanti tra loro, si degrada lentamente ma inesorabilmente. Le distanze percorribili si accorciano e si assiste al fenomeno del “campanilismo” cioè il ritenere che il luogo dove si abita sia il migliore e quindi gli orizzonti non si estendano “più in là del campanile”.

L’inefficienza e l'insicurezza delle strade nel Medioevo sarà causa di molte carestie poiché il grano che i romani riuscivano a trasportare per molte centinaia di chilometri a seconda delle necessità che si presentavo nei vari territori, non può più essere trasportato a lunghe distanze.  

Per di più, mentre fra il 1100 e il 1300 in Europa si riscontra un 
notevole aumento della temperatura media, tale da consentire anche 
in Gran Bretagna la coltivazione dell'olivo, nei secoli successivi la 
temperatura media diminuisce in modo significativo.

Vanno quasi completamente in rovina anche i complessi sistemi di acquedotti e fognature di origine romana (resti di cloache romane sono per altro ancora visibili in molte città moderne), per cui l’acqua viene abitualmente estratta dai pozzi che spesso sono contaminati e l’igiene si fa sempre più scarsa, tanto che le persone portano sul proprio corpo una gran quantità di parassiti. 

Questo problema è fortemente aggravato dal fatto che durante il Medioevo si ritiene comunemente che il corpo debba essere nascosto poiché fonte di tentazioni peccaminose. Il convergere di questi fattori fa si che le condizioni igieniche siano generalmente pessime, e gli uomini siano talmente abituati ai parassiti ospitati nelle proprie vesti (che i medioevali non cambiano mai), che si diffonde la convinzione che siano da ritenersi malate le persone che non li hanno. 

I territori paludosi bonificati dai romani tornano ad essere paludi e luoghi inospitali, cosicché si diffondono nuovamente malattie come la malaria (che viene trasmessa dalle zanzare), tifo, colera, vaiolo e ovviamente la peste. 
Si crede molto nelle nelle superstizioni, al punto di accusare alcuni uomini di essere stregoni che diffondono proprio quelle malattie che sono causate dalla scarsa igiene. 

Spesso si ritengono responsabili di epidemie le "streghe" e gli ebrei che per questo sono vittime di feroci persecuzioni.



domenica 26 ottobre 2014

I Vichinghi nella storia d'Europa


Già nel I secolo d.C. si parla, in Roma, di popoli “germanici”, ma la definizione è vaga e si applica genericamente a tutti coloro che sono stanziati oltre il confine settentrionale dell'Impero.
Fra il III e il IX secolo d. C. i popoli germanici provenienti dall'Europa orientale e settentrionale invadono i territori dell'Impero romano. Si tratta dei Goti, dei Vandali, dei Longobardi, dei Burgundi, dei Sassoni, degli Alamanni, che si stanziano in Italia, in Gallia, in Europa centrale, nella penisola iberica, sconvolgendo l'organizzazione politica ed economica dei territori imperiali.
Se rivolgiamo l'attenzione all'estremo nord vediamo che, a partire dall'VIII secolo, altri popoli germanici, abitanti nelle regioni scandinave, estendono il proprio controllo sull'Islanda e sulla Groenlandia, giungendo addirittura, nel X secolo (e quindi ben prima di Cristoforo Colombo), a toccare le coste settentrionali del continente americano. Si tratta dei Normanni (uomini del nord), chiamati anche Vichinghi o Variaghi.

Mentre gli altri popoli germanici non conoscono o comunque utilizzano pochissimo la navigazione, i Normanni si spostano quasi esclusivamente sull'acqua e tendono quindi a conquistare e colonizzare isole o zone costiere. D'altro canto, il nome Vikingr indicherebbe, secondo alcuni studiosi “chi va di golfo in golfo” e ciò confermerebbe il loro amore per la navigazione.
Oltre che in Islanda e Groenlandia, i primi stanziamenti normanni si trovano sulle coste inglesi, scozzesi (le isole Shetland e le isole Orcadi rimarranno sotto il controllo dei Vichinghi fino alla fine del XV secolo), e irlandesi (ai Normanni si attribuisce la fondazione di Dublino). Essi si stanziano inoltre sulle coste francesi affacciate sulla Manica. La loro abilità di navigatori li porta poi ad esplorare le coste della penisola iberica, ad entrare nel Mediterraneo, a giungere in Sicilia, in Grecia, a Costantinopoli. Partendo dal mar Baltico essi risalgono i grandi fiumi dell'Europa orientale e giungono fino a Kiev.
Queste imprese sono rese possibili dalle eccezionali doti delle navi normanne: leggere, robuste veloci, esse si spostano sia grazie alle vele sia con l'uso dei remi. Il loro pescaggio è molto moderato e questo consente di avvicinarsi alle coste anche dove non vi sono porti e di risalire facilmente i fiumi.

I Normanni sono divisi in varie popolazioni, provenienti principalmente dalla Norvegia, dalla Svezia e dalla Danimarca, ma del punto di vista dei popoli mediterranei essi formano un unico gruppo. La loro regione è politeistica e, dal punto di vista cristiano, vengono quindi definiti “pagani”.
La vita sociale dei Normanni è organizzata con criteri che prefigurano quelli delle moderne democrazie. Fin dal X secolo gli abitanti normanni dell'Islanda costituiscono una sorta di parlamento (Althing), nel quale si discute dei problemi comuni e si affrontano i conflitti fra i gruppi familiari. Fra i Normanni le donne godono di diritti fondamentali, possono chiedere il divorzio e guidano le famiglie.
Nell'Italia meridionale i Normanni si stanziano fra l'XI e il XII secolo, dando vita a esempi di buon governo.
Con la battaglia di Hastings (1066), i Normanni guidati da Guglielmo il Conquistatore sconfiggono i Sassoni guidati da Aroldo II (che muore durante lo scontro). Guglielmo viene solennemente consacrato re d'Inghilterrra nell'abbazia di Westminster.

venerdì 10 ottobre 2014

Dalla deposizione dell'ultimo imperatore romano all'affermazione del feudalesimo

appunti raccolti da Alekos Zonca

Dopo la deposizione, avvenuta nel 476, di Romolo Augustolo (ultimo imperatore romano d'occidente), il controllo della penisola italica viene assunto dal barbaro Odoacre


Moneta che riproduce le fattezze di Odoacre
.

Contemporaneamente, in Gallia, il potere viene assunto dal re dei Franchi Clodoveo. 
Con un lungo e sanguinoso conflitto, Teodorico, re degli Ostrogoti, riesce a strappare a Odoacre il controllo dell'Italia.
Intorno al 500 d.C. inizia la conversione al cristianesimo dei Franchi.
Nel corso del VI secolo, a causa dei continui conflitti e del completo abbandono delle vie di comunicazione, la vita delle popolazioni europee si fa sempre più difficile: i commerci sono quasi impossibili, le carestie imperversano,i saccheggi e le violenze sfuggono a ogni controllo.

Nella prima metà del VI secolo, per ordine dell'Imperatore d'Oriente Giustiniano, si compie la raccolta e la classificazione di un'immensa quantità di documenti che, riuniti nel "Corpus Iuris Civilis", attestano l'ampiezza e la profondità della cultura giuridica romana. 
Nel 535 ha inizio la guerra greco-gotica, con la quale Giustiniano intende conquistare i territori dell'ormai devastato Impero d'occidente e ricostituire l'unità degli antichi territori romani. 
La guerra provoca stragi crudeli e spaventose devastazioni: si tratta forse del periodo più drammatico dell'intera storia d'Italia.
Terminata la guerra con la vittoria dei Bizantini, entrano in Italia - provenendo dall'Europa nord-orientale - i Longobardi guidati dal re Alboino ed inizia un nuovo periodo di violenze. I Longobardi ottengono il controllo di una gran parte della penisola, sconfiggendo quasi ovunque i Bizantini.

All'inizio del VII secolo la predicazione di Maometto diffonde la religione monoteista islamica, che accoglie e sintetizza elementi del giudaismo e del cristianesimo, ottenendo un'immediata adesione fra le popolazioni della penisola arabica. Nel 632 Maometto muore. I suoi successori, detti "califfi" riuniscono nella propria persona il potere politico e quello religioso.
Nel corso di pochi anni le popolazioni del Medio oriente entrano a far parte di un ampio impero islamico, in continua espansione.
Durante i successivi cento anni, l'Islam si espande in tutto il Nord Africa e nella penisola iberica, valicando poi i Pirenei e giungendo fino alla Francia sud-occidentale.

Nel 753 il re dei Longobardi Astolfo entra in conflitto con il papa Stefano II che si pone sotto la protezione dei Franchi. Inizia un periodo di tensione fra Longobardi e Franchi, che si concluderà con il prevalere di questi ultimi, guidati dal re Carlo. 
L'incoronazione di Carlo Magno
Con un succedersi di lunghe e sanguinosi conflitti Carlo riesce a impadronirsi di tutta l'Europa centro-occidentale. Nell'800 il papa Leone III incorona Carlo 
(noto come Carlo Magno), attribuendogli la carica di imperatore del Sacro Romano Impero. Carlo consolida la sua autorità attraverso la compenetrazione tra potere civile e potere religioso. Dall'età di dodici anni, tutti i sudditi di Carlo Magno devono convertirsi al cristianesimo, giurare fedeltà all'imperatore e sottostare al servizio militare. 
In una cripta situata nel  Grossmünster di Zurigo si trova una statua risalente al XII secolo che rappresenta Carlo Magno 
Si tratta della prima grande alleanza tra “trono” e “altare” poiché Carlo Magno vuole che il suo potere sia confermato da Dio: d’altro canto  il papa è interessato dalla protezione che un popolo forte e compatto come quello dei Franchi può dare alla Chiesa. Il Sacro Romano Impero sarà in seguito identificato come Primo Reich (il Secondo nascerà nel 1871 per opera del cancelliere prussiano Bismarck con l'imperatore Guglielmo I, il Terzo nel 1933 per opera di Hitler). 
Il Sacro Romano Impero fondato da Carlo Magno unisce quasi tutte le tribù nomadi appartenenti alle popolazioni barbariche. Un compito svolto sia dall’unificazione franca, sia dalla religione cristiana, che si definirà cattolica dopo la scissione che porterà alla formazione della chiesa ortodossa. 
Con Carlo Magno diventa sistematico l'uso dei "capitolari" (ordinanze divise in capitoli), con cui si regolano i problemi organizzativi dello stato.

La divisione dell’impero tra i discendenti di Carlo Magno sarà alla base della successiva frammentazione in feudi, elemento caratteristico di tutto il medioevo. Si assiste così alla disgregazione dell’appena nato Sacro Romano Impero, che darà vita a tanti territori sottomessi ad un aristocratico locale detto feudatario (il cui potere deriva dall'aver giurato fedeltà al sovrano), o ad un abate se questi territori fanno parte di un abbazia, comunità religiosa che gode di un forte grado di autonomia. 

La decadenza dell'Impero d'Oriente

Dopo il tentativo vano di riappropriarsi dell’Italia durante la guerra gotico-bizantina, l'Impero d'Oriente entrerà in una condizione di lentissima ma inesorabile agonia. Negli ultimi decenni della sua esistenza l'Impero sarà praticamente ridotto alla sola città di Bisanzio (Costantinopoli). Nel 1453 l'Impero bizantino sarà definitivamente abbattuto e Costantinopoli diventerà capitale dell'Impero ottomano, assumendo poi il nome di Istanbul.

mercoledì 19 settembre 2012

Parmenide: testi


1) Le cavalle che mi portarono fin dove giungeva il mio desiderio mi fecero arrivare, dopo che mi ebbero condotto e dopo che mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, che appartiene alla divinità e che guida per ogni luogo l'uomo che sa. Là fui condotto. Infatti, là mi portarono sapienti cavalle tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via. L'asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, arroventandosi – in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall'altra – quando le fanciulle Figlie del Sole affrettavano il viaggio nell'accompagnarmi, dopo aver lasciato le case della Notte, verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo. Là c’è una porta fra i sentieri della Notte e del Giorno, sostenuta da un architrave e c'è una soglia di pietra; e la porta, nella sua altezza, è riempita da grandi battenti. Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono. Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole, con gentilezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito aprendosi, produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare nei cardini, in senso inverso, gli assi di bronzo fissati con chiodi e con borchie. Di là, subito, attraverso la porta, proprio per la strada maestra le fanciulle condussero carro e cavalle. E la Dea con cortesia mi accolse, e con la sua mano prese la mia mano destra, e incominciò a parlare e mi disse: «O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati, poiché non è infausta la sorte che ti ha condotto a percorrere questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini –, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tutto tu apprenda: e il solido cuore della sferica Verità e le opinioni dei mortali, nelle quali non c'è una vera certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisogna che veramente siano giudicate». 

 2) Indifferente è per me il punto da cui devo iniziare il cammino; là infatti, nuovamente dovrò fare ritorno. 

 3) È inevitabile dire e pensare che l'essere sia: infatti l'essere è, il nulla non è: ti esorto a considerare queste cose. E dunque ti tengo lontano da questa prima via di ricerca, ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno vanno errando, uomini a due teste: infatti è l'incertezza che nei loro petti guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati, contemporaneamente sordi e ciechi, istupiditi, razza di uomini senza giudizio, dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa e non la medesima cosa. 

 4) Questo non si potrà mai pretendere: che siano le cose che non sono! Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero, né l'abitudine, nata da numerose esperienze, ti forzi su questa via a muovere l'occhio che non vede, l'orecchio che rimbomba e la lingua.  

I PARADOSSI DI ZENONE
Zenone è noto per aver enunciato alcuni paradossi logici in relazione all'esistenza del movimento. In tutti il fine è quello di dimostrare che accettare l'esistenza del movimento implica inestricabili contraddizioni ed è quindi inevitabile, da un punto di vista puramente razionale, riconoscere l'inaffidabilità dell'esperienza sensibile ed accettare l'affermazione di Parmenide secondo cui la realtà è immobile.

domenica 6 novembre 2011

Dal "Fedone" di Platone

La morte di Socrate




ECHECRATE Di' un po', Fedone, eri presente tu quando, in carcere, Socrate bevve il veleno o ne hai sentito parlare da altri?

FEDONE C'ero io proprio, Echecrate.

ECHECRATE E che disse prima di morire? E come morì? Vorrei proprio saperlo; perché, noi di Fliunte, non andiamo quasi mai ad Atene e da quella città non è venuto nessuno che potesse riferirci notizie sicure su questo fatto. Così sappiamo soltanto che è morto dopo aver bevuto il veleno. E nessuno ci ha saputo dire di più.

FEDONE Ora che ci penso, che strano effetto mi faceva stare accanto a quell'uomo; ero lì, che moriva un amico, e non provavo alcuna pietà. Mi pareva felice, Echecrate, sia dal suo modo di fare che da come parlava: c'era in lui una nobile e intrepida fierezza, tanto da farmi pensare che egli se ne andava non senza il soccorso di un dio e che, nell'al di là, sarebbe stato il più felice di tutti. Ecco perché, forse, non provavo quella pietà che pure sarebbe stata così naturale in tanta sventura. Sempre, nei giorni che precedettero la morte, io e gli altri eravamo soliti incontrarci con Socrate. Ci riunivamo al mattino, appena faceva chiaro, nel tribunale dove venne fatto il processo, che era vicino al carcere e lì, chiacchierando, aspettavamo che ci venisse aperta la prigione. A volte si aspettava anche un bel po'; ma quando ci aprivano, correvamo da Socrate e restavamo con lui anche tutta la giornata. Quella mattina, poi, giungemmo molto presto perché la sera prima, lasciando il carcere, sentimmo dire che era tornata la nave da Delo e così fummo d'accordo di vederci il giorno dopo al solito posto, al più presto possibile. Quando giungemmo, il custode, che ci aveva sempre fatti passare, venne fuori e ci disse di attendere e di non entrare fino a quando non ce lo avesse detto lui, perché gli Undici proprio in quel momento stavano togliendo le catene a Socrate e comunicandogli che quello era il giorno della sua morte. Dopo un po' tornò e ci disse che potevamo entrare e noi, infatti, trovammo Socrate libero dai ceppi e Santippe (tu la conosci, no?), che con il bambino più piccolo in braccio, gli stava vicino. Appena quella ci vide, cominciò a strillare e a dire le solite cose che dicono le donne: «Ahimè, Socrate, ecco che è l'ultima volta che i tuoi amici parlano con te e tu con loro.» E Socrate, rivolgendosi a Critone: «Che qualcuno me la levi di torno e la riporti a casa.» Alcuni servi di Critone, così, la condussero via, mentre lei continuava a smaniare e a battersi il petto. «Quanto a me, invece, il destino già mi chiama, direbbe qui un eroe tragico, e quindi, quasi quasi è il momento che io faccia un bagno: è più giusto, infatti, che mi lavi da me, prima di bere il veleno e non dar così il fastidio alle donne di dover lavare un cadavere.» Ebbe appena finito che Critone gli chiese: «Hai da darci qualche disposizione, Socrate, sui tuoi ragazzi o cosa possiamo fare per te, che ti sia maggiormente gradita?» «Non ho nulla di nuovo da dirvi,» rispose, «se non quello che vi ho sempre detto: abbiate cura di voi stessi e così farete cosa gradita a me e a voi, anche se ora non mi dovete promettere nulla; se, invece, vi lascerete andare, se non sarete disposti a seguire, per così dire, le tracce di quanto s'è detto, non solo ora ma anche per il passato, se pure adesso venite a farmi molte e solenni promesse, non concluderete un bel niente.» «Ce la metteremo tutta a far come tu dici,» assicurò. «Ma per i tuoi funerali, che dobbiam fare?» «Ma fate come volete, sempre che riusciate ad afferrarmi e che io non vi sfugga.» Sorrise serenamente e volgendo gli occhi verso di noi, soggiunse: «Non mi riesce, amici, di persuadere Critone che il vero Socrate sono proprio io, questo che, ora, vi sta parlando, che sta mettendo in buon ordine, per benino, i suoi pensieri; invece, egli crede che io sia già un altro, quello che tra poco vedrà cadavere e perciò mi chiede cosa fare per i miei funerali. E tutto il lungo discorso che vi ho fatto, che cioè, dopo che ho bevuto il veleno, io non me ne starò più con voi ma me ne andrò, via di qui, verso la felicità dei beati, mi pare proprio che per lui sia stato inutile, fatto solo per consolare voi e, a un tempo, un po' anche me stesso.» Detto questo si alzò e andò in un'altra stanza per lavarsi e Critone che gli andò dietro ci disse di aspettare. Così noi rimanemmo e ci mettemmo a discutere e a ripensare su quel che s'era detto e, inoltre, sulla grande disgrazia che c'era capitata, sentendoci, veramente, come se avessimo perduto un padre e dovuto trascorrere, ormai, da orfani, tutta la vita. Quand'ebbe finito il bagno, gli condussero i figliuoletti (ne aveva due ancora piccoli e uno più grandicello) e vennero anche le donne di casa; egli si intrattenne un po' con loro, alla presenza di Critone, fece qualche raccomandazione, poi le pregò di allontanarsi con i bambini e tornò da noi. 

Era stato parecchio di là e, perciò, il sole stava ormai tramontando. Tornò, dunque, dopo il bagno e si venne a sedere, ma da quel momento scambiò soltanto qualche parola. Poi entrò il funzionario degli Undici che gli andò vicino e gli disse: «Socrate, con te, non mi toccherà quello che spesso mi capita con gli altri, che se la prendono con me e mi maledicono, quando porto loro il veleno per ordine dei magistrati. In tutti questi giorni, invece, io ho capito che tu sei l'uomo più nobile, più mite, più buono di quanti sono entrati finora qua dentro; io so benissimo, ora, che tu non ce l'hai con me ma con i responsabili e tu li conosci bene. E, ora, addio, perché sai quel che son venuto ad annunziarti e cerca di sopportare come meglio puoi la tua sorte.» Non finì di parlare che gli venne da piangere, si voltò dall'altra parte e se ne andò. Socrate lo seguì con lo sguardo: «Addio anche a te,» disse. «faremo come tu dici.» E rivolto a noi, «che brav'uomo che è; in tutti questi giorni è venuto a trovarmi e, spesso, s'è messo anche a parlare con me, proprio una degna persona e ora, che caro, con quel suo pianto. Ma via, Critone, obbediamogli, che portino il veleno, se è già stato preparato; altrimenti che facciano presto.» E Critone: «Ma Socrate, se non mi sbaglio, il sole non è mica tramontato, è ancora sui monti, e io so di gente che ha aspettato un bel pezzo prima di bere il veleno, anzi dopo aver mangiato e bevuto e, alcuni, magari, dopo esser rimasti con chi volevano. Quindi, non aver fretta, c'è ancora tempo.» E Socrate: «Ma è naturale, Critone, che questi tali di cui parli, facciano così, perché credono di guadagnarci qualcosa. Ma è anche naturale che io mi comporti diversamente perché so che non ci guadagno nulla a bere un po' più tardi se non di rendermi ridicolo a me stesso mostrandorni cosi attaccato alla vita, cercando di risparmiarla, proprio quando non resta più nulla. Va, dunque,» concluse, «e fa come ti dico.»   Critone, allora, fece cenno a un suo servo che se ne stava in disparte. Questi uscì e dopo un po' tornò con l'uomo che, in una ciotola, portava già tritato il veleno che doveva somministrargli. «Tu, brav'uomo, che sei pratico di queste cose,» disse Socrate vedendolo, «cos'è, allora, che bisogna fare?» «Nient'altro che bere e poi passeggiare un po' per la stanza finché non ti senti le gambe pesanti; poi ti metti disteso e così farà il suo effetto.» Così dicendo porse la ciotola a Socrate. La prese, Echecrate, con tutta la sua serenità, senza alcun tremito, senza minimamente alterare colore o espressione del volto, ma guardando quell'uomo, di sotto in sù, con quei suoi occhi grandi di toro. «Che ne dici di questa bevanda, se ne può fare o no libagione a qualcuno? È permesso?» «Socrate, noi ne tritiamo giusta la quantità che serve.» «Capisco, ma pregare gli dei che il trapasso da qui all'al di là, avvenga felicemente, questo mi pare sia lecito; questo io voglio fare e così sia.» Così dicendo, tutto d'un fiato, vuotò tranquillamente la ciotola. Molti di noi che fino allora, alla meglio, erano riusciti a trattenere le lacrime, quando lo videro bere, quando videro che egli aveva bevuto, non ce la fecero più; anche a me le lacrime, malgrado mi sforzassi, sgorgarono copiose e nascosi il volto nel mantello e piansi me stesso, oh, piansi non per lui ma per me, per la mia sventura, di tanto amico sarei rimasto privo. Critone, poi, ancora prima di me, non riusciva a dominarsi e s'era alzato per uscire. Apollodoro, poi, che fin dal principio non aveva fatto che piangere, scoppiò in tali singhiozzi e in tali lamenti che tutti noi presenti ci sentimmo spezzare il cuore, tranne uno solo, Socrate, anzi: «Ma che state facendo?» esclamò. «Siete straordinari. E io che ho mandato via le donne perché non mi facessero scene simili; a quanto ho sentito dire, bisognerebbe morire tra parole di buon augurio. State calmi, via, e siate forti.» E noi, provammo un senso di vergogna a sentirlo parlare così e trattenemmo il pianto. Egli, allora, andò un po' su e giù per la stanza, poi disse che si sentiva le gambe farsi pesanti e cosi si stese supino come gli aveva detto l'uomo del veleno il quale, intanto, toccandolo dì quando in quando, gli esaminava le gambe e i piedi e a un tratto, premette forte un piede chiedendogli se gli facesse male. Rispose di no. Dopo un po' gli toccò le gambe, giù in basso e poi, risalendo man mano, sempre più in su, facendoci vedere come si raffreddasse e si andasse irrigidendo. Poi, continuando a toccarlo: «Quando gli giungerà al cuore,» disse, «allora, sarà finita.» Egli era già freddo, fino all'addome, quando si scoprì (s'era, infatti, coperto) e queste furono le sue ultime parole: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate.» «Certo,» assicurò Critone, «ma vedi se hai qualche altra cosa da dire.» Ma lui non rispose. Dopo un po' ebbe un sussulto. L'uomo lo scoprì: aveva gli occhi fissi. Vedendolo, Critone gli chiuse le labbra e gli occhi. Questa, Echecrate, la fine del nostro amico, un uomo che fu il migliore, possiamo ben dirlo, fra quanti, del suo tempo, abbiamo conosciuto e, senza paragone, il più saggio e il più giusto.







domenica 9 ottobre 2011

Testi di Democrito e su Democrito



Sul comportamento egli esseri umani e sulla ricerca della felicità così si esprime Democrito:

1) Astieniti dalle colpe non per paura ma perché si deve.

2) La felicità non consiste negli armenti e neppure nell'oro; l’anima è la dimora della nostra sorte.

3) Gli uomini invocano la salute dagli dei con le preghiere, e non sanno che essa è in loro potere; ma siccome per intemperanza operano contro di essa, sono essi stessi che tradiscono la propria salute a causa delle passioni.

4) Le bramosie violente per certe cose accecano l'anima riguardo tutto il resto.

5) Saggio è colui che non si cruccia per le cose che non ha, ma gode di quelle che ha.

6) La bellezza del corpo è una dote da animale, se non c'è intelligenza.

7) Non è degno di vivere colui che non ha neppure un solo buon amico.

8) L'amicizia di uno solo, che sia intelligente, val più di quella di tutti gli altri presi insieme.

10) Ogni paese della Terra è aperto all'uomo saggio: perché la patria dell'animo virtuoso è l'intero universo.

11) L'aver desideri smoderati è da fanciullo, non da uomo.

12) Chi cede sempre davanti al denaro, non sarà mai uomo giusto.

13) Si deve essere veraci, non loquaci.

14) Chi preferisce i beni dell'anima sceglie ciò che ha pregio più divino; chi preferisce quelli del corpo, sceglie beni umani.

15) La perfezione dell'anima fa scomparire la deformità del fisico, mentre la forza del corpo scompagnata dal raziocino non rende affatto migliore l'anima.


Riflessioni di Aristotele a proposito di Democrito

È del tutto erroneo il supporre di dare un principio sufficiente col dire che è sempre o accade sempre così: che è la concezione a cui Democrito riconduce le cause della natura, in base alla considerazione che i fenomeni del passato si sono prodotti nello stesso modo di ora; e la causa dell’eterno, poi, non ritiene di dover ricercare.
Vi sono poi di quelli che attribuiscono al caso la causa dell’esistenza di questo nostro cielo e di tutti i mondi: dal caso deriva il vortice e il movimento che separò gli elementi e ordinò nella sua forma presente l’universo (...). E quel che fa veramente meraviglia è che, mentre dicono che gli animali e le piante né esistono né nascono fortuitamente, sebbene hanno una causa, sia poi questa la materia o la mente o qualcosa di simile (giacché da ogni singolo seme non viene fuori ciò che capita, ma da questo qui viene l’olivo, da quell'altro l’uomo ecc.), affermano per contro che il cielo e tutto quanto vi è di più divino tra i fenomeni derivano dal caso e che non vi è affatto per essi una causa analoga a quella che c’è per gli animali e per le piante.